di Otello Lupacchini
L’oceanica manifestazione “anti ‘Ndrangheta” davanti alla Stazione ferroviaria di Milano e gli entusiastici commenti dei “millanta” partecipanti, “stanchi, ma felici”, hanno indotto il Sarcastico a interrogarsi: “Ma la ‘Ndrangheta, è un’accolita di imbecilli ovvero una mega associazione di “menti raffinatissime?”. Arduo è il dilemma.
Se guardiamo le malevole attenzioni che, un giorno sì e l’altro pure, la ‘Ndrangheta pare riservare al novello Barone di Münchhausen, reo ai suoi occhi di una trentennale lotta indefessa e senza quartiere contro di essa, quotidianamente narrata da “menanti” che ne subiscono il fascino “a prescindere”, il Sarcastico non può fare a meno di notare la macroscopica sproporzione tra le minacce e i modesti risultati dell’impegno profuso dall’ineffabile Barone; dunque, propende per il primo corno del dilemma: la ‘Ndrangheta altro non è che un’accolita di imbecilli.
Il Sarcastico, tuttavia, è anche pieno di malizia, per cui “sospetta” che a un’associazione di malfattori che parrebbe aver soppiantato, oscurandole, le fino all’altro ieri ben più blasonate consorterie mafiose, italiane e straniere, avendo finito, si dice, per esercitare, ormai in regime di monopolio, le attività criminali maggiormente lucrose, possa far buon gioco alimentare il mito del Barone, avallando con le proprie minacce le narrazioni che trasformano la sua lunga “esperienza investigativa di combattimento”, contrassegnata da reiterati clamorosi insuccessi processuali, in una mirabolante avventura professionale, con un duplice vantaggio per la ‘Ndrangheta stessa: accreditarsi come una sorta di Idra di Lerna, che tanto più s’espande quanto più micidiali siano i colpi infertile, il primo: concentrare il fuoco dell’attenzione su un falso bersaglio, per meglio potersi dedicare indisturbata a ben altri e più pericolosi obiettivi, il secondo.
Se così fosse, chapeau! Dietro la ‘Ndrangheta si muoverebbero “menti raffinatissime”. Mentre il Sarcastico tenta di risolvere il dilemma, barcamenandosi tra apparenza e realtà, noi possiamo solo sperare ch’egli non faccia la fine dell’Asino di Buridano.
di Roberto Spagnoli
La legge sulle droghe è il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri. Il 35 per cento dei detenuti è in carcere a causa del Testo unico sugli stupefacenti. Il 30 per cento degli ingressi in carcere è causato da detenzione o piccolo spaccio. Attualmente la popolazione carceraria assomma a 54mila detenuti, seimila in più della capienza regolamentare. Senza la legge attuale il sovraffollamento nelle carceri semplicemente non esisterebbe. Quasi il 36 per cento di coloro che entrano in carcere e più del 28 per cento dei detenuti sono registrati come tossicodipendenti (molti dei quali soffrono anche di altre patologie).
Secondo la relazione annuale del Governo al Parlamento sulle dipendenze, la cannabis è il prodotto più utilizzato. Nel 2021 il 50 per cento delle operazioni antidroga e il 74 per cento delle sostanze sequestrate ha riguardato la sola cannabis. Sempre secondo la relazione il 44 per cento della spesa totale stimata per il consumo di sostanze illegali riguarda la cannabis. Il 97 per cento delle denunce riguarda lo spaccio e il piccolo traffico e nemmeno il 3 per cento l’associazione per delinquere finalizzata al traffico. Infatti, come più volte ho sottolineato nelle mie Note, in carcere ci sono soprattutto piccoli e piccolissimi spacciatori mentre i narcotrafficanti sono neanche un migliaio.
I dati Espad Italia 2021 indicano che il 24 per cento degli studenti ha consumato cannabis almeno una volta nella vita e il 18 per cento dei 15-19enni l’hanno usata nel corso dell’ultimo anno (Espad Italia è lo studio sugli stili di vita e sull’uso di alcol, tabacco e sostanze psicotrope legali e illegali dei giovani tra i 15 e i 19 anni che frequentano le scuole superiori). Secondo i dati l’uso di cannabis si accompagna a quello di altre sostanze solamente nel 9 per cento dei casi e le conseguenze sanitarie rimangono marginali. La ricerca indica che in Italia il consumo di cannabis è molto diffuso, in particolare tra i giovani, nonostante la legge in vigore.
La relazione annuale del Governo al Parlamento ha fatto proprie le proposte emerse dalla conferenza nazionale sulle dipendenze svoltasi a Genova nel novembre scorso. La relazione indica l’utilità di «sottrarre all’azione penale sia la coltivazione di cannabis a uso domestico, sia la cessione di modeste quantità per uso di gruppo laddove non sia presente la finalità di profitto». In questa direzione va la proposta di legge all’esame della Camera dei deputati che introduce la depenalizzazione della coltivazione casalinga di cannabis, prevede la riduzione delle pene per i reati di lieve entità e rivede il sistema delle sanzioni amministrative.
Il traffico delle sostanze psicoattive illegali rappresenta il grande business delle mafie con un giro d’affari che supera i 450 miliardi di dollari all›anno. Secondo il rapporto annuale dell’Osservatorio europeo di Lisbona in Europa vale oltre 24 miliardi di euro. Il narcotraffico costituisce il core business della criminalità organizzata in tutta Europa, come ha detto il nuovo procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo. Le mafie hanno saputo evolversi al passo con i tempi agendo in maniera integrata e transnazionale. Lo aveva intuito Giovanni Falcone, oltre trent’anni fa.
Falcone sosteneva che per capire la mappa degli interessi criminali e i legami tra le varie organizzazioni bisogna seguire i soldi – “Follow the money” – cioè ricostruire pagamenti, scambi di denaro, investimenti. Era stata l’intuizione di Gaetano Costa, il procuratore capo di Palermo assassinato per le sue indagini sui clan Spatola, Inzerillo e Gambino, costruttori di appalti truccati e trafficanti di droga. Un’idea ripresa dal consigliere istruttore Rocco Chinnici, anche lui assassinato, e poi fatta propria dal pool antimafia.
Su “L’Espresso” del 26 giugno Piero Melati, in una conversazione con Fiammetta Borsellino, ricorda il dossier mafia-appalti su cui Falcone e Paolo Borsellino avrebbero voluto lavorare ma che venne archiviato dopo la strage di Capaci e in coincidenza con quella di via D’Amelio. Attorno a quel dossier, ricorda Melati, lo stesso Falcone, in due convegni pubblici e in un intervento relativo ai “paradisi fiscali”, aveva fatto riferimento alla «mafia che si è quotata in Borsa». Antonio Di Pietro in seguito affermò che Tangentopoli era partita perché Falcone e Borsellino gli avevano riferito quanto detto da Tommaso Buscetta: i miliardi del traffico internazionale di droga dalla Sicilia erano stati riciclati e investiti al Nord. È la pista dei soldi ma, come sostiene Fiammetta Borsellino, «non risulta che nei tre decenni successivi alle stragi qualcuno se ne sia mai occupato».
Contro la proposta di legge per la depenalizzazione della cannabis la Lega ha promesso in Parlamento guerriglia e barricate, ma la guerriglia e le barricate che vediamo in continuazione sono quelle contro la ragionevolezza, contro le evidenze scientifiche. Contro il referendum sulla cannabis, poi bocciato dalla Corte Costituzionale, Fratelli d’Italia aveva fatto appello a non mandare il futuro in fumo, ma ad andare in fumo sono politiche efficaci in grado di governare una realtà che coinvolge milioni di persone continuando a fare il gioco dei narcotrafficanti che traggono la loro linfa vitale dal mercato nero prodotto dalle leggi proibizioniste.
Al Consiglio generale del Coordinamento radicale antiproibi–zionista che si riunì a Bologna il 15 settembre 1991, Umberto Santino, co-fondatore e direttore del Centro “Peppino Impastato” di Palermo, il primo centro studi sulla mafia sorto in Italia, disse che l’antiproibizionismo assume la portata di un’opzione strategica contro l’accumulazione illegale. Il titolo di quel consiglio generale era “Antimafia? Antiproibizionismo!”: non un semplice slogan ma un vero e proprio programma politico che oggi resta valido e più attuale che mai.
A maggio è stato commemorato il trentennale della strage di Capaci in cui morirono Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta. A luglio ricorre il trentennale dell’attentato di via D’Amelio in cui furono trucidati Borsellino e la sua scorta. Alla commemorazione non ci sa–ranno i familiari di Borsellino: una questione non proprio secondaria, come nota Melati che tuttavia passa in secondo piano. Anche quest’anno la consueta e nutrita passerella di politici, ma la memoria non si fa con le commemorazioni. Lo stesso vale per la lotta alle mafie: si fa con atti concreti, con scelte politiche. Il resto sono solo parole vuote e propaganda.
di Salvatore Sechi
Non è stato finora precisato quale fu concretamente la visione che dopo la prima guerra mondiale Piero Sraffa ebbe dell’economia. Mi pare si possa dire che fu poco o nulla vicina a quella di Karl Kautsky. Insieme ad Antonio Gramsci (ma prima di lui e su una base non giornalistica ma teorica) l’esponente della socialdemocrazia tedesca per un certo periodo ravvisò nella globalizzazione e nell’integrazione del capitalismo un elemento di sviluppo delle forze produttive.
A questa sinistra marxista si deve l’apologia del modo di produzione capitalistico e l’idea che l’imperialismo potesse essere una fase in cui produzione, occupazione e incremento della ricchezza potessero continuare. Solo così il proletariato industriale poteva ergersi a competitore e sostituirsi alla borghesia.
Anche se non disponiamo di elementi documentali precisi, l’impressione è che Sraffa subisse, invece, l’influenza di Lenin di cui L’Ordine Nuovo (al quale il giovane economista era sensibilmente lega–to) si fece il maggiore interprete, e anzi portavoce, nella sinistra italiana dell’epoca.
Nelle lotte operaie dell’inizio degli anni Venti sulle due rive del l’Atlantico aveva visto all’opera una borghesia non “ardentemente capitalista”, ma in preda ad un “ideale di mediocrità conservatrice“.
Ho usato il lessico delle Riflessioni sulla violenza di Sorel [1] per dire che gli esponenti del capitalismo non furono all’altezza della sua funzione storica. Con la conseguenza che non avevano dato il meglio di sé, cioè la realizzazione di obiettivi e un assetto sociale più avanzati, ma, inducendo così il proletariato a non essere “pieno di spirito bellicoso e fiducioso nelle forze rivoluzionarie”.
Quel che Sraffa aveva avuto sotto gli occhi non era lo spettacolo di due classi sociali che si fossero levate “l’un contro l’altro, con tutto il rigore di cui sono capaci le forze di cui dispongono”.
Gramsci prima di finire irretito nella venerazione per Lenin aveva rilevato che “solo in quanto gli operai hanno un fine divergente ed antagonistico col fine dei capitalisti, questi miglioreranno la tecnica, introdurranno innovazioni utili” e saranno sospinti a “esplorare i mercati, e creare tipi di merce che i mercati preferiscono”. [2]
Fu, infatti, il capo dei bolscevichi a formulare l’idea di una precipita zione irreversibile del capitalismo verso l’imperialismo con esito finale una dèbacle catastrofica e la spinta irreversibile alla guerra. Derivò di qui l’opzione per la coscienza antagonistica di classe rispetto ai rapporti di produzione (cioè per una lettura di tipo terzi-inter nazionalista del capitalismo rispetto a quella dei socialisti riformisti).
Ancora nella primavera del 1918 Gramsci perorava l’importanza dell’opera di perfezionamento della borghesia, la spinta al progresso dell’ordinamento economico-sociale del capitalismo e con esso all’incremento della produzione e della ricchezza. [3] Non sarà isolato se a Milano un sindacalista rivoluzionario suo conterraneo come Attilio Deffenu si sentirà indotto ad applicare al sottosviluppo questa lettura(riproposta da Gramsci) dell’affresco storico del capitalismo delineato da Marx nel primo volume del Capitale, scrivendo che anche “la Sardegna comincerà a vivere capitalisticamente”. [4]
Questa cultura aveva per protagonisti Luigi Einaudi, De Viti De Marco, Attilio Cabiati, Edoardo Giretti ecc., cioè la grande cultura liberista. Da loro muovono i giudizi inizialmente favorevoli al cd americanismo (Wilson e il wilsonismo).
Il presidente degli Stati Uniti da Gramsci era considerato il rappresentante degli interessi concreti del capitalismo americano. Rispetto a quello italiano ne viene messa in evidenza la vitalità nell’alimentare lo sviluppo e l’occupazione.
Per quanto concerne l’organizzazione del lavoro il metodo più efficace viene individuato nel taylorismo (operazioni di calcolo e disciplina dei tempi di lavoro, loro scomposizione ecc.). E nella Fiat, in cui i metodi di Ford e Taylor venivano applicati sul piano della produzione, delle relazioni industriali e di quelle internazionali, fu individuato nella Fiat. Qui era venuta maturando quella forma di americanismo che Giovanni Agnelli, wilsoniano solerte, ritenne fosse adatto, se non proprio gradito, alle sue maestranze.
Ma Washington diventava anche l’epicentro dell’imperialismo sostituendosi alla Gran Bretagna sul piano interno e internazionale. L’industria torinese occupava un posto significativo, di punta, in quanto in Italia, e ai primi posti in Europa, era alla guida del processo di unificazione capitalistica in corso su scala mondiale.
Nel giro di qualche anno, precisamente nel 1919, dall’entusiasmo per il presidente americano si passa allo scetticismo. Dopo l’associazione degli Stati Uniti alla campagna di aggressione contro l’Urss, di con certo con a Francia di Clemenceau, il disincanto prende la via della dissacrazione fino alla condanna senza appello.
Dall’esecrazione di Wilson all’apoteosi di Lenin fino a farne una leggenda e un modello il passo è tanto breve quanto impressionante. Di qui scaturisce l’attacco demolitore portato (non solo da Gramsci, ma anche da Sraffa) al sindacalismo americano, la denuncia del suo corporativismo, con la riprovazione di un esponente del riformismo sindacale, Samuel Gompers. Da “vecchio Zar” (come amava chiamarlo Gramsci) al ministro degli interni tedesco Noske (come lo etichettò Zinoviev, presidente dell’Internazionale comunista).
[1] G.Sorel, Scritti politici, a cura di Roberto Vivarelli, Utet, Torino 2006, p.
[2] A,Gramsci,I propositi e le necessità, ed, piemontese dell’Avanti!, 12 dicembre 1918, ora in Id., Il nostro Marx, a cura di Sergio Caprioglio, Einaudi, Torino 1980, p. 394
[3] Rimando alle ricostruzioni di L. Rapone
[4] A.Deffenu, chiedere a Guido o ad Antonello Mattone