di Valter Vecellio
Una terribile stagione, quella del 1992. C’è un primo delitto, quello del Parlamentare Europeo democristiano Salvo Lima; poi gli altri, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ignazio Salvo, e naturalmente Francesca Morvillo, le scorte: delitti diversi, persone diverse; ma al tempo stesso parte di un unico disegno, o almeno “unitario”: come se una gigantesca mano abbia voluto spazzare via da un tavolo tutto quello che vi era posato, e per poi dare inizio a un altro possibile equilibrio. A questi delitti si può aggiungere anche il per fortuna fallito attentato contro Rino Germanà: si salva per la sua prontezza, è sul lungomare di Mazara del Vallo, si getta in acqua, la scampa. Ma colpisce la scansione dei delitti: Lima 12 marzo; Falcone 23 maggio; Borsellino 19 luglio; Germanà, 14 settembre: sanguinose cambiali che scadono ogni due mesi. Chissà. Forse è solo una suggestione.
Falcone aveva molti nemici, e certamente la Cosa Nostra gliel’aveva giurata. Questo è perfino normale, nell’ordine delle cose; il solo pensare, respirare di Falcone per la Cosa Nostra era un pericolo.
Accanto ai nemici “naturali”, Falcone ne ha collezionati altri, istituzionali se così si può dire. Di questi è bene non smarrire la memoria. In estrema sintesi:
a) è il Consiglio Superiore della Magistratura a maggioranza (compresi due su tre aderenti a Magistratura Democratica) a preferire Antonino Meli a Falcone, quando Falcone si candida all’Ufficio Istruzione. Uno dei due, la signora Elena Paciotti, viene poi candidata ed eletta al Parlamento Europeo nelle liste del PCI-PDS;
b) sono i suoi colleghi magistrati, a maggioranza, a bocciarlo quando si candida al Consiglio Superiore della Magistratura.
c) sono Leoluca Orlando, Carmine Mancuso e Alfredo Galasso, rappresentanti dell’allora “Rete”, a denunciare Falcone al Consiglio Superiore della Magistratura, accusandolo di tener chiusi nei suoi cassetti le verità sui delitti eccellenti a Palermo. E dinanzi al CSM Falcone è costretto a difendersi da questa accusa;
d) nel corso di una famosa puntata del “Maurizio Costanzo Show”, Falcone presente, viene accusato di aver “disertato” per aver accettato l’incarico di direttore degli Affari Penali al ministero della Giustizia;
d) quando viene costituita, da una sua idea, la Procura Nazionale Antimafia, il Consiglio Superiore della Magistratura gli preferisce il procuratore di Palmi Agostino Cordova;
e) è Alessandro Pizzorusso, consigliere laico del CSM a firmare nella pagina due de “l’Unità” un lunghissimo articolo nel quale in sostanza si sostiene che Falcone non è affidabile perché ha accettato l’incarico al ministero della Giustizia.
Poi ci sono le domande che attendono risposta. Falcone ha cura di redigere una sorta di diario. Una parte l’affida a una giornalista amica: saggia precauzione col senno di poi; alla sua morte viene pubblicato, ed è Borsellino a certificarne l’autenticità. Tuttavia, il documento nella sua integrità, a quanto è dato sapere, risulta tuttora irreperibile. Irreperibili alcuni file del computer trovato nell’abitazione di Palermo. Irreperibili i file nel computer nell’ufficio al ministero di Giustizia: cancellato il disco rigido del computer trovato nell’abitazione romana. Una vera e propria “bonifica” che non può essere stata fatta da Totò Riina e dai suoi tagliagole.
Forse s’è perso qualche passaggio, ma sono tanti i documenti spariti, intere biblioteche. Scomparsi gli appunti scritti dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa sul vorticoso giro di appalti palermitani e siciliani.
L’inseparabile borsa da cui il generale mai si separa, “sparisce” per lungo tempo. La ritrovano in uno scantinato del tribunale di Palermo. Vuota. Il generale si portava a spasso, senza mai abbandonarla, una borsa vuota? Scomparso il foglio della relazione di servizio redatta dall’agente Calogero Zucchetto, il primo ad arrivare sul luogo dell’omicidio Dalla Chiesa. Anche Zucchetto è ucciso dalla mafia. Scomparsa l’agenda del capo della sezione investigativa della squadra mobile di Palermo Ninni Cassarà, ucciso dalla mafia. Scomparsa l’agenda che Cassarà sequestra a casa di Ignazio Salvo. Scomparsi gli appunti del poliziotto Nino Agostino, ucciso dalla mafia assieme alla moglie. È anche grazie ad Agostino se il misterioso attentato all’Addaura, sempre contro Falcone, fallisce. Dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, sappiamo tutti. Il magistrato l’ha con sé, molti l’hanno vista, a via D’Amelio; dopo l’attentato, qualcuno la fa sparire. Scomparsi anche gli appunti del maresciallo Antonino Lombardo, che svolge un ruolo non secondario nella cattura di Riina, e misteriosamente si suicida all’interno della caserma Bonsignore di Palermo.
È noto l’assioma di Agatha Christie: un indizio è un indizio; due indizi sono una coincidenza; ma tre indizi sono una prova. Qui gli indizi sono un’infinità.
Una quantità di misteri anche per quel che riguarda la strage di via D’Amelio. Recentemente la figlia del magistrato, Fiammetta, ha rilasciato un’intervista al settimanale “l’Espresso”. Una bella intervista, con molte cose su cui riflettere. Soprattutto sulla risposta a una domanda: se ha avuto risposta alle tredici domande che aveva posto ufficialmente anni fa. Risposta secca: “Nessuna”.
In occasione del trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio un po’ tutti hanno espresso il loro dolore e il loro sdegno, rendendosi interpreti della necessità di trovare risposte a tanti aspetti oscuri di quella vicenda; si potrebbe dare concreto contributo a questo obiettivo unendosi a Fiammetta Borsellino, e chiedere una risposta a quei tredici interrogativi, che vale la pena rileggere:
Perché le autorità locali e nazionali preposte alla sicurezza non misero in atto tutte le misure necessarie per proteggere mio padre, che dopo la morte di Falcone era diventato l’obiettivo numero uno di Cosa nostra?
Perché per una strage di così ampia portata fu prescelta una procura composta da magistrati che non avevano competenze in ambito di mafia? L’ufficio era composto dal procuratore capo Giovanni Tinebra, dai sostituti Carmelo Petralia, Annamaria Palma (dal luglio 1994) e Nino Di Matteo (dal novembre ’94).
Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di mio padre? E perché l’ex Pubblico Ministero allora parlamentare Giuseppe Ayala, fra i primi a vedere la borsa, ha fornito versioni contraddittorie su quei momenti?
Perché i Pubblici Ministeri di Caltanissetta non ritennero mai di interrogare il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, che non aveva informato mio padre della nota dei carabinieri del Ros sul “tritolo arrivato in città” e gli aveva pure negato il coordinamento delle indagini su Palermo, cosa che concesse solo il giorno della strage, con una telefonata alle 7 del mattino?
Perché nei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, i Pubblici Ministeri di Caltanissetta non convocarono mai mio padre, che aveva detto pubblicamente di avere cose importanti da riferire?
Cosa c’è ancora negli archivi del vecchio Sisde, il servizio segreto, sul falso pentito Scarantino (indicato dall’intelligence come vicino ad esponenti mafiosi) e sul suo suggeritore, l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera?
Perché i Pubblici Ministeri di Caltanissetta non depositarono nel primo processo il confronto fatto tre mesi prima fra il falso pentito Scarantino e i veri collaboratori di giustizia (Cancemi, Di Matteo e La Barbera) che lo smentivano? Il confronto fu depositato due anni più tardi, nel 1997, solo dopo una battaglia dei difensori degli imputati.
Perché i Pubblici Ministeri di Caltanissetta furono accomodanti con le continue ritrattazioni di Scarantino e non fecero mai il confronto tra i falsi pentiti dell’inchiesta (Scarantino, Candura e Andriotta), dai cui interrogatori si evinceva un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni, in modo da farle convergere verso l’unica versione?
Perché il Pubblico Ministero Ilda Boccassini (che partecipò alle prime indagini, fra il giugno e l’ottobre 1994), firmataria insieme al Pubblico Ministero Sajeva di due durissime lettere nelle quali prendeva le distanze dai colleghi che continuavano a credere a Scarantino, autorizzò la polizia a fare dieci colloqui investigativi con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione con la giustizia?
Perché non fu mai fatto un verbale del sopralluogo della polizia con Scarantino nel garage dove diceva di aver rubato la 126 poi trasformata in autobomba? Perché i Pubblici Ministeri non ne fecero mai richiesta? E perché nessun magistrato ritenne di presenziare al sopralluogo?
Chi è davvero responsabile dei verbali con a margine delle annotazioni a penna consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino? Il poliziotto ha dichiarato che l’unico scopo era quello di aiutarlo a ripassare: com’è possibile che fino alla Cassazione i giudici abbiano ritenuto plausibile questa giustificazione?
Il 26 luglio 1995 Scarantino ritrattava le sue dichiarazioni con un’intervista a Studio Aperto. Prima ancora che l’intervista andasse in onda, i Pubblici Ministeri Palma e Petralia annunciavano già alle agenzie di stampa la ritrattazione della ritrattazione di Scarantino, anticipando il contenuto del verbale fatto quella sera col falso pentito. Come facevano a prevederlo?
Perché Scarantino non venne affidato al servizio centrale di protezione, ma al gruppo diretto da La Barbera, senza alcuna richiesta e autorizzazione da parte della magistratura competente?
Un memoriale del generale Mario Mori
Una terribile stagione, quella del 1992. C’è un primo delitto, quello del Parlamentare Europeo democristiano Salvo Lima; poi gli altri, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ignazio Salvo, e naturalmente Francesca Morvillo, le scorte: delitti diversi, persone diverse; ma al tempo stesso parte di un unico disegno, o almeno “unitario”: come se una gigantesca mano abbia voluto spazzare via da un tavolo tutto quello che vi era posato, e per poi dare inizio a un altro possibile equilibrio. A questi delitti si può aggiungere anche il per fortuna fallito attentato contro Rino Germanà: si salva per la sua prontezza, è sul lungomare di Mazara del Vallo, si getta in acqua, la scampa. Ma colpisce la scansione dei delitti: Lima 12 marzo; Falcone 23 maggio; Borsellino 19 luglio; Germanà, 14 settembre: sanguinose cambiali che scadono ogni due mesi. Chissà. Forse è solo una suggestione.
Falcone aveva molti nemici, e certamente la Cosa Nostra gliel’aveva giurata. Questo è perfino normale, nell’ordine delle cose; il solo pensare, respirare di Falcone per la Cosa Nostra era un pericolo.
Accanto ai nemici “naturali”, Falcone ne ha collezionati altri, istituzionali se così si può dire. Di questi è bene non smarrire la memoria. In estrema sintesi:
a) è il Consiglio Superiore della Magistratura a maggioranza (compresi due su tre aderenti a Magistratura Democratica) a preferire Antonino Meli a Falcone, quando Falcone si candida all’Ufficio Istruzione. Uno dei due, la signora Elena Paciotti, viene poi candidata ed eletta al Parlamento Europeo nelle liste del PCI-PDS;
b) sono i suoi colleghi magistrati, a maggioranza, a bocciarlo quando si candida al Consiglio Superiore della Magistratura.
c) sono Leoluca Orlando, Carmine Mancuso e Alfredo Galasso, rappresentanti dell’allora “Rete”, a denunciare Falcone al Consiglio Superiore della Magistratura, accusandolo di tener chiusi nei suoi cassetti le verità sui delitti eccellenti a Palermo. E dinanzi al CSM Falcone è costretto a difendersi da questa accusa;
d) nel corso di una famosa puntata del “Maurizio Costanzo Show”, Falcone presente, viene accusato di aver “disertato” per aver accettato l’incarico di direttore degli Affari Penali al ministero della Giustizia;
d) quando viene costituita, da una sua idea, la Procura Nazionale Antimafia, il Consiglio Superiore della Magistratura gli preferisce il procuratore di Palmi Agostino Cordova;
e) è Alessandro Pizzorusso, consigliere laico del CSM a firmare nella pagina due de “l’Unità” un lunghissimo articolo nel quale in sostanza si sostiene che Falcone non è affidabile perché ha accettato l’incarico al ministero della Giustizia.
Poi ci sono le domande che attendono risposta. Falcone ha cura di redigere una sorta di diario. Una parte l’affida a una giornalista amica: saggia precauzione col senno di poi; alla sua morte viene pubblicato, ed è Borsellino a certificarne l’autenticità. Tuttavia, il documento nella sua integrità, a quanto è dato sapere, risulta tuttora irreperibile. Irreperibili alcuni file del computer trovato nell’abitazione di Palermo. Irreperibili i file nel computer nell’ufficio al ministero di Giustizia: cancellato il disco rigido del computer trovato nell’abitazione romana. Una vera e propria “bonifica” che non può essere stata fatta da Totò Riina e dai suoi tagliagole.
Forse s’è perso qualche passaggio, ma sono tanti i documenti spariti, intere biblioteche. Scomparsi gli appunti scritti dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa sul vorticoso giro di appalti palermitani e siciliani.
L’inseparabile borsa da cui il generale mai si separa, “sparisce” per lungo tempo. La ritrovano in uno scantinato del tribunale di Palermo. Vuota. Il generale si portava a spasso, senza mai abbandonarla, una borsa vuota? Scomparso il foglio della relazione di servizio redatta dall’agente Calogero Zucchetto, il primo ad arrivare sul luogo dell’omicidio Dalla Chiesa. Anche Zucchetto è ucciso dalla mafia. Scomparsa l’agenda del capo della sezione investigativa della squadra mobile di Palermo Ninni Cassarà, ucciso dalla mafia. Scomparsa l’agenda che Cassarà sequestra a casa di Ignazio Salvo. Scomparsi gli appunti del poliziotto Nino Agostino, ucciso dalla mafia assieme alla moglie. È anche grazie ad Agostino se il misterioso attentato all’Addaura, sempre contro Falcone, fallisce. Dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, sappiamo tutti. Il magistrato l’ha con sé, molti l’hanno vista, a via D’Amelio; dopo l’attentato, qualcuno la fa sparire. Scomparsi anche gli appunti del maresciallo Antonino Lombardo, che svolge un ruolo non secondario nella cattura di Riina, e misteriosamente si suicida all’interno della caserma Bonsignore di Palermo.
È noto l’assioma di Agatha Christie: un indizio è un indizio; due indizi sono una coincidenza; ma tre indizi sono una prova. Qui gli indizi sono un’infinità.
Una quantità di misteri anche per quel che riguarda la strage di via D’Amelio. Recentemente la figlia del magistrato, Fiammetta, ha rilasciato un’intervista al settimanale “l’Espresso”. Una bella intervista, con molte cose su cui riflettere. Soprattutto sulla risposta a una domanda: se ha avuto risposta alle tredici domande che aveva posto ufficialmente anni fa. Risposta secca: “Nessuna”.
In occasione del trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio un po’ tutti hanno espresso il loro dolore e il loro sdegno, rendendosi interpreti della necessità di trovare risposte a tanti aspetti oscuri di quella vicenda; si potrebbe dare concreto contributo a questo obiettivo unendosi a Fiammetta Borsellino, e chiedere una risposta a quei tredici interrogativi, che vale la pena rileggere:
Perché le autorità locali e nazionali preposte alla sicurezza non misero in atto tutte le misure necessarie per proteggere mio padre, che dopo la morte di Falcone era diventato l’obiettivo numero uno di Cosa nostra?
Perché per una strage di così ampia portata fu prescelta una procura composta da magistrati che non avevano competenze in ambito di mafia? L’ufficio era composto dal procuratore capo Giovanni Tinebra, dai sostituti Carmelo Petralia, Annamaria Palma (dal luglio 1994) e Nino Di Matteo (dal novembre ’94).
Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di mio padre? E perché l’ex Pubblico Ministero allora parlamentare Giuseppe Ayala, fra i primi a vedere la borsa, ha fornito versioni contraddittorie su quei momenti?
Perché i Pubblici Ministeri di Caltanissetta non ritennero mai di interrogare il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, che non aveva informato mio padre della nota dei carabinieri del Ros sul “tritolo arrivato in città” e gli aveva pure negato il coordinamento delle indagini su Palermo, cosa che concesse solo il giorno della strage, con una telefonata alle 7 del mattino?
Perché nei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, i Pubblici Ministeri di Caltanissetta non convocarono mai mio padre, che aveva detto pubblicamente di avere cose importanti da riferire?
Cosa c’è ancora negli archivi del vecchio Sisde, il servizio segreto, sul falso pentito Scarantino (indicato dall’intelligence come vicino ad esponenti mafiosi) e sul suo suggeritore, l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera?
Perché i Pubblici Ministeri di Caltanissetta non depositarono nel primo processo il confronto fatto tre mesi prima fra il falso pentito Scarantino e i veri collaboratori di giustizia (Cancemi, Di Matteo e La Barbera) che lo smentivano? Il confronto fu depositato due anni più tardi, nel 1997, solo dopo una battaglia dei difensori degli imputati.
Perché i Pubblici Ministeri di Caltanissetta furono accomodanti con le continue ritrattazioni di Scarantino e non fecero mai il confronto tra i falsi pentiti dell’inchiesta (Scarantino, Candura e Andriotta), dai cui interrogatori si evinceva un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni, in modo da farle convergere verso l’unica versione?
Perché il Pubblico Ministero Ilda Boccassini (che partecipò alle prime indagini, fra il giugno e l’ottobre 1994), firmataria insieme al Pubblico Ministero Sajeva di due durissime lettere nelle quali prendeva le distanze dai colleghi che continuavano a credere a Scarantino, autorizzò la polizia a fare dieci colloqui investigativi con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione con la giustizia?
Perché non fu mai fatto un verbale del sopralluogo della polizia con Scarantino nel garage dove diceva di aver rubato la 126 poi trasformata in autobomba? Perché i Pubblici Ministeri non ne fecero mai richiesta? E perché nessun magistrato ritenne di presenziare al sopralluogo?
Chi è davvero responsabile dei verbali con a margine delle annotazioni a penna consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino? Il poliziotto ha dichiarato che l’unico scopo era quello di aiutarlo a ripassare: com’è possibile che fino alla Cassazione i giudici abbiano ritenuto plausibile questa giustificazione?
Il 26 luglio 1995 Scarantino ritrattava le sue dichiarazioni con un’intervista a Studio Aperto. Prima ancora che l’intervista andasse in onda, i Pubblici Ministeri Palma e Petralia annunciavano già alle agenzie di stampa la ritrattazione della ritrattazione di Scarantino, anticipando il contenuto del verbale fatto quella sera col falso pentito. Come facevano a prevederlo?
Perché Scarantino non venne affidato al servizio centrale di protezione, ma al gruppo diretto da La Barbera, senza alcuna richiesta e autorizzazione da parte della magistratura competente?
Mafia, appalti, Riina, Falcone, Borsellino…
Un memoriale del generale Mario Mori
Nelle interminabili discussioni originate dall’attività operativa del ROS dei Carabinieri nel contrasto alla mafia, il punto di partenza è sempre costituito dalla mancata perquisizione del “covo” di Salvatore Riina. Quale protagonista di quei fatti espongo in merito la mia versione. Subito dopo la cattura del capo di “cosa nostra”, nella riunione tra magistrati e investigatori che ne seguì, fu naturalmente considerata l’ipotesi dell’immediata perquisizione della sua abitazione, ubicata a Palermo in via Bernini 54, ma al momento non individuata precisamente, perché inserita in un comprensorio – delimitato da un alto muro di recinzione – costituito da una serie di villette indipendenti.
Prospettata dal capitano Sergio De Caprio, e da me sostenuta, prevalse la decisione di non effettuare la perquisizione. La proposta derivava della considerazione che il Riina era stato appositamente arrestato lontano dal luogo di residenza della famiglia – un suo “covo” non è mai stato trovato – e teneva conto della prassi mafiosa di non custodire, nella proprie abitazioni, elementi che potessero compromettere i parenti stretti. Questa soluzione avrebbe dovuto permetterci lo sviluppo di indagini coperte sui soggetti che gli assicuravano protezione, senza che fosse nota la nostra conoscenza della sua abitazione. L’improvvida indicazione dell’indirizzo ad opera di un ufficiale dell’Arma territoriale di Palermo, che consentì alla stampa, dopo circa ventiquattro ore dalla cattura, di presentarsi con le telecamere davanti all’ingresso di via Bernini, “bruciò” l’obiettivo, e i conseguenti servizi di osservazione del cancello di accesso al comprensorio furono sospesi per il serio pericolo di lasciare dei militari dentro un furgone isolato, esposto a qualsiasi tipo di offesa.
A questo punto anche le indagini che ci eravamo prefissi di svolgere in copertura divennero molto più difficili, stante l’eco addirittura internazionale della vicenda. Malgrado queste difficoltà, la cattura del Riina non rimase un fatto episodico, perché attraverso alcuni “pizzini” trovatigli addosso, fu possibile risalire alla cerchia stretta dei suoi favoreggiatori, procedendo in successione di tempo al loro arresto. La perquisizione della villetta abitata dai Riina venne eseguita solo dopo alcuni giorni su iniziativa della Procura della Repubblica di Palermo, in un quadro di scollamento tra le attività della magistratura e della polizia giudiziaria. Noi eravamo convinti di potere sempre agire nell’ambito delle iniziative preliminarmente concordate, mentre la Procura era sicura del mantenimento del controllo sull’obiettivo. L’equivoco diede luogo all’apertura di un procedimento giudiziario che i sostituti procuratori incaricati, Antonio Ingroia e Michele Prestipino, proposero per due volte di archiviare, ma il Gip, attraverso un’ordinanza di imputazione coatta, decise per l’apertura del processo, con l’ipotesi, a carico mio e del capitano De Caprio, di favoreggiamento di elementi di “cosa nostra”. La vicenda penale si concluse con la nostra piena assoluzione, perché “il fatto non costituisce reato”.
Nella motivazione, la 3° Sezione penale del Tribunale di Palermo, sulla decisione volta a dilazionare la perquisizione, sosteneva testualmente: «… Questa opzione investigativa comportava evidentemente un rischio che l’Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di Polizia Giudiziaria direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione. Nella decisione di rinviarla appare, difatti logicamente, insita l’accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell’abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell’ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella (moglie del Riina, ndr) che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere o occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina – cosa che avrebbero potuto fare nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell’arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo – od anche terzi che, se sconosciuti alle forze dell’ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti. L’osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al cancello di ingresso dell’intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l’allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata e le frequentazioni del sito».
Sull’ipotesi, emersa già anche in quel processo, di una trattativa condotta dal Ros con uomini di “cosa nostra”, il Tribunale la escludeva con queste considerazioni: «… La consegna del boss corleonese nella quale avrebbe dovuto consistere la prestazione della mafia è circostanza rimasta smentita dagli elementi fattuali acquisiti nel presente giudizio». A conferma dell’approccio sempre manifestato, fondato cioè sulla convinzione della nostra non colpevolezza, la Procura di Palermo non interpose appello. Malgrado l’esito processuale, che non avrebbe dovuto concedere ulteriori margini di discussione, “la mancata perquisizione del covo di Riina” rimane tuttora un postulato per coloro che sostengono il teorema delle mie responsabilità penali nell’azione di contrasto a “cosa nostra”. In particolare viene sempre citata l’esistenza di una cassaforte – contenente chissà quali segreti – che sarebbe stata smurata ed asportata dall’abitazione del boss e a nulla vale presentare la fotografia, scattata anni dopo e agli atti dei procedimenti giudiziari, che ritrae il mio avvocato, il senatore Pietro Milio, a fianco della cassaforte ancora ben infissa nel muro. Nell’ipotesi peggiore, l’attività investigativa mia e dei militari che comandavo è considerata sostanzialmente criminale. Bene che vada, la tecnica operativa attuata dal Ros, mutuata dal Nucleo Speciale Antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, è definita come autoreferenziale, quindi non perfettamente in linea con i canoni stabiliti dalle norme procedurali.
Di fronte a queste accuse che considero ingiuste, ritengo di dovere fare alcune considerazioni. Le critiche che mi vengono rivolte, relative alle indagini svolte dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, sono sostenute per lo più da persone che, all’epoca, in quella primavera/estate del 1992, se non erano minorenni, certamente non hanno avuto nessuna partecipazione e conoscenza vissuta degli eventi, per cui esprimono giudizi senza avere presente la realtà di quei drammatici mesi. La società nazionale ed in particolare i siciliani, già profondamente colpiti dal tragico attentato di Capaci, accolsero attoniti la nuova strage di via D’Amelio. Chi si trovava allora a Palermo poteva constatare l’angoscia e la paura diffuse, non solo tra i cittadini comuni, ma anche in coloro che per gli incarichi ricoperti avevano il dovere di contrastare con ogni mezzo “cosa nostra”. Ricordo in particolare come alcuni magistrati sostenessero che era finita la lotta alla mafia e parlassero di resa; ho ancora ben presenti tutti quei politici, giornalisti ed esperti che esprimevano il loro sconfortato pessimismo, valutando senza possibilità di successo il futuro del contrasto al fenomeno. Anche molti colleghi, tra le forze di polizia, avevano iniziato a privilegiare il più prudente e coperto lavoro d’ufficio rispetto alle attività su strada.
Nessuno, comunque, a livello di magistratura ma anche da parte degli organi politici competenti, ovvero delle scale gerarchiche delle forze di polizia, ritenne, in quei giorni, d’impartire direttive o delineare linee d’azione investigative aggiornate per contrastare più efficacemente l’azione criminale di “cosa nostra”. Le istituzioni sembravano dichiararsi impotenti contro l’attacco mafioso. In particolare erano scomparsi dalla scena i protagonisti dell’antimafia militante. In questo sfacelo generale alcuni, e tra questi i Carabinieri del Ros, ritennero invece un dovere, prima morale e poi professionale, incrementare l’attività investigativa, nel rispetto della propria funzione e per onorare la memoria dei morti nelle due stragi. Decisi così d’iniziativa, ma nella mia competenza di responsabile di un reparto operativo dell’Arma, di attualizzare e rendere più incisiva l’attività d’indagine, costituendo un nucleo, comandato dal capitano De Caprio, destinato esclusivamente alla cattura di Riina ed autorizzai il cap. Giuseppe De Donno a perseguire la sua idea di contattare Vito Ciancimino, personalità politica notoriamente prossima alla “famiglia” corleonese, nel tentativo di ottenere una collaborazione che consentisse di acquisire notizie concrete sugli ambienti mafiosi, così da giungere alla cattura di latitanti di spicco.
Si tenga conto che il capitano De Donno, negli anni precedenti, aveva arrestato Ciancimino per vicende connesse ad appalti indetti dal Comune di Palermo, ma se si voleva ottenere qualche risultato concreto, non si poteva ricercare notizie valide tra i soliti informatori più o meno attendibili, ma avvicinare chi con la mafia aveva sicure relazioni. A proposito del contatto con Ciancimino non posso essere criticato per un’attività riservata nella ricerca di notizie e di latitanti; infatti le norme procedurali consentono all’ufficiale di polizia di ricercare e tenere rapporti con quelli che ritiene in grado di fornirgli informazioni. Ciancimino quindi, libero cittadino in attesa di giudizio, era una potenziale fonte informativa e per questo avvicinabile in tutta riservatezza dalla polizia giudiziaria, così come previsto dall’art. 203 del nostro codice di procedura penale.
Molti mi imputano il fatto di non avere avvertito l’autorità giudiziaria competente del tentativo di convincere l’ex sindaco di Palermo alla collaborazione. Del tentativo ritenni di dovere rendere edotte alcune cariche istituzionali. La dottoressa Liliana Ferraro, stretta collaboratrice di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia, ne fu informata nel corso del mese di giugno 1992, sino dai primi approcci tentati dal capitano De Donno col figlio del Ciancimino; il magistrato ne parlò a sua volta col ministro Claudio Martelli e con il dottor Borsellino. Nel luglio 1992 avvisai personalmente il segretario generale di palazzo Chigi, l’avvocato Fernanda Contri, che comunicò la notizia al presidente del Consiglio dei Ministri, Giuliano Amato. Nell’ottobre successivo ne parlai ripetutamente all’on. Luciano Violante, nella sua qualità di presidente della Commissione Parlamentare Antimafia.
Tutti questi contatti hanno avuto conferme da parte degli interessati nei dibattimenti processuali che mi hanno riguardato. Le personalità qui citate rivestivano cariche istituzionali e avevano funzioni che mi consentivano di riferire loro notizie riservate sulle indagini che stavo svolgendo. Se qualcuno di costoro, peraltro, avesse ravvisato qualche comportamento illecito nel mio comportamento, avrebbe avuto l’autorità, anzi l’obbligo, di denunciarlo immediatamente ai miei superiori, ovvero alle autorità politiche da cui dipendeva la mia scala gerarchica, ma questo non avvenne. La mia scala gerarchica, per suo conto, sulle indagini svolte, così come previsto, eseguì successivamente un’indagine amministrativa che si concluse senza rilevare elementi censurabili nella mia condotta. Rimane però il fatto di non avere informato la Procura della Repubblica di Palermo per un tentativo certamente non di routine che prevedeva, per me e De Donno, e questo deve essere chiaro, anche significativi rischi personali, visto che ci eravamo presentati con i nostri nomi e le nostre funzioni ad una persona legata strettamente ai “corleonesi”, avendogli precisato, dopo i primi approcci, che il nostro intento finale era quello di ottenere la cattura dei latitanti mafiosi di spicco.
Sarò esplicito sul punto: decisi di non avvisare la Procura di Palermo, in attesa della sostituzione prevista di lì a qualche mese del suo responsabile, dottor Pietro Giammanco, perché non mi fidavo della sua linearità di comportamento e ne spiego qui di seguito i motivi. Quando fui nominato, nel settembre 1986, comandante del Gruppo CC. di Palermo, provenivo dall’esperienza della lotta al terrorismo condotta dal Nucleo Speciale di PG del generale Dalla Chiesa, dove si era capito che nelle indagini contro le maggiori espressioni di criminalità – terrorismo ma anche delinquenza organizzata di tipo mafioso – si doveva agire considerando il fenomeno nel suo complesso e non per singoli aspetti. Mi resi conto che a Palermo le Forze di Polizia operavano di norma per eventi specifici – solo con Falcone ed il pool antimafia si era cominciato ad affrontare analiticamente il fenomeno mafioso – ottenendo risultati complessivamente inadeguati. Mancava la cultura dell’indagine di lungo respiro, preferendo il più facile risultato immediato ma senza prospettive, a un’azione che, portata in profondità, consentisse alla fine di raggiungere risultati realmente consistenti.
Questo concetto d’azione, cioè il differimento della perquisizione dell’abitazione, sarà alla base dell’indirizzo d’indagine prospettato ai magistrati subito dopo la cattura di Riina. Per tornare al mio arrivo a Palermo, mi parve presto chiaro che “cosa nostra” non si preoccupava tanto della cattura di qualche suo elemento, perché sempre sostituibile, ma temeva gli attacchi alle sue attività in campo economico, quelle cioè che le consentivano di sostenersi ed ampliare il proprio potere. Individuai non nelle estorsioni, il così detto pizzo, ma nella gestione e nel condizionamento degli appalti pubblici, il canale di finanziamento più importante dell’organizzazione. Dalle prime indagini, da me assegnate al capitano De Donno, si evidenziò la figura di Angelo Siino quale uomo di “cosa nostra” incaricato di gestire i rapporti con gli altri protagonisti dell’affare appalti.
Per la prima volta, con il sostegno convinto e fattivo di Falcone, si sviluppò un’indagine specifica relativa alle turbative realizzate nelle gare degli appalti pubblici, partendo dagli interessi mafiosi. Emerse allora il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) imprenditoria e politica, come sino ad allora ritenuto, non erano affatto vittime, ma partecipi dell’attività criminosa, concorrendo alla spartizione dei proventi illeciti.
Si arrivò così a risultati concreti addirittura prima, come sostenuto dallo stesso dottor Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali, che l’inchiesta milanese “Mani Pulite” prendesse corpo e producesse i suoi effetti pratici. Infatti, all’inizio di febbraio 1991, il dottor Falcone, nel lasciare il Tribunale di Palermo per il ministero della Giustizia, chiese di depositare l’informativa riassuntiva sull’indagine che era già stata preceduta da una serie di notazioni preliminari, redatte dal capitano De Donno su aspetti particolari dell’inchiesta, tra cui quelli relativi alle attività di politici apparsi nel corso degli accertamenti. Falcone spiegò che la consegna formale fatta nelle sue mani ci avrebbe in parte protetti dalle polemiche che l’indagine avrebbe sicuramente creato. Appena ricevuta l’informativa, il dottor Falcone la portò al procuratore capo Giammanco.
Da quel 17 febbraio 1991, per mesi, malgrado le insistenze del capitano De Donno e mie, non si seppe più nulla dell’inchiesta, e questo anche se, il 15 marzo 1991, in un convegno tenutosi al castello Utveggio di Palermo, a proposito della nostra indagine, Falcone avesse affermato: « …Si potrebbe dire che abbiamo fatto dei tipi di indagine a campione, da cui si può dedurre con attendibilità un certo tipo di condizionamento, ma l’indagine di cui mi sono occupato a Palermo, mi induce a ritenere che la situazione sia molto più grave di quello che appare all’esterno …»; e proseguendo: «Io credo che la materia dei pubblici appalti è la più importante perché è quella che consente di fare emergere come una vera e propria cartina di tornasole quel connubio, quell’ibrido intreccio tra mafia, imprenditoria e politica…». Il 2 luglio 1991, infine, furono emesse cinque ordinanze di custodia cautelare per quattro imprenditori siciliani più Siino.
Dopo pochi giorni tutti, a cominciare da “cosa nostra”, seppero i risultati raggiunti dall’inchiesta e soprattutto dove questa poteva portare, perché alla scontata richiesta degli avvocati difensori di conoscere gli elementi di accusa relativi ai propri patrocinati, invece di stralciare e consegnare esclusivamente gli aspetti documentali relativi ai singoli inquisiti, così come previsto dalla norma, venne consegnata l’intera informativa: 878 pagine più gli allegati.
Il procuratore Giammanco, addirittura, ritenne d’inviare l’informativa al ministro della Giustizia Martelli, iniziativa presa nell’agosto del 1991, provocando la reazione del ministro che, consigliato da Falcone, la rispedì al mittente, rilevando e sottolineando l’irritualità della trasmissione di un atto di indagine che, in quanto tale, non poteva essere di competenza dell’autorità politica. Iniziò in quel periodo la crisi nei rapporti tra la Procura Palermo e il Ros. Nel marzo 1992 rientrò a Palermo, proveniente dalla Procura della Repubblica di Marsala, Borsellino, assumendo le funzioni di procuratore aggiunto.
Tra lo stupore generale, il procuratore Giammanco, non gli delegò la competenza delle indagini antimafia su Palermo e provincia. A riguardo appare oltremodo significativa l’affermazione, riportata nella recente sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta (Borsellino quater), attribuita a Giuseppe “Pino” Lipari che, alla notizia del rientro del magistrato a Palermo, aveva sostenuto come il fatto avrebbe portato problemi a “quel santo cristiano di Giammanco”. Il Lipari era un geometra palermitano che curava gli affari della “famiglia” corleonese. In quei primi mesi Paolo Borsellino divenne rapidamente il punto di riferimento di magistrati e investigatori impiegati nel contrasto alla mafia e continuò a mantenere costanti rapporti personali e professionali con Falcone che il 23 maggio 1992, a Capaci, venne ucciso da una bomba che provocò anche la morte della moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e di tre addetti alla sua scorta. Da quel momento l’attività di Borsellino assunse un ritmo quasi frenetico e continuò sino alla sua fine, avvenuta il successivo 19 luglio 1992.
Nel periodo compreso tra l’uccisione di Falcone e quella di Borsellino (e lo sterminio delle loro scorte) si sviluppò una significativa serie di vicende riguardanti le indagini del Ros, e precisamente:
19 giugno 1992, due ufficiali del Ros, i capitani Umberto Sinico e Giovanni Baudo, informano direttamente il dottor Borsellino di avere ricevuto notizie confidenziali circa la preparazione di un attentato nei suoi confronti, precisando e che in merito erano stati formalmente allertati gli organi istituzionali competenti per la sua sicurezza;
25 giugno 1992, Borsellino mi chiede un incontro riservato che si svolge a Palermo nella caserma Carini, presente anche il capitano De Donno. Il magistrato, che già aveva ottenuto dal Ros il rapporto “mafia e appalti” quando era a Marsala – in merito ci sono le dichiarazioni processuali a conferma da parte dei magistrati Alessandra Camassa, Massimo Russo e Ingroia, oltre a quelle dell’allora maresciallo Carmelo Canale – sostiene di volere proseguire le indagini già coordinate da Falcone che gliene aveva parlato ripetutamente e sollecita, ottenendola, la disponibilità operativa del capitano De Donno e degli altri militari che avevano condotto l’inchiesta;
12 luglio 1992, la Procura di Palermo, con lettera di trasmissione a firma Giammanco, invia quasi per intero l’informativa Ros sugli appalti ad altri uffici giudiziari siciliani “per conoscenza e per le opportune determinazioni di competenza”. Per un’indagine basata sull’ipotesi di associazione per delinquere di tipo mafioso (416 bis c.p.) la procedura adottata implica, da parte della Procura mandante, il sostanziale cessato interesse per gran parte dell’indagine, infliggendole un colpo praticamente mortale;
13 luglio 1992, i sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiedono l’archiviazione dell’inchiesta mafia e appalti;
14 luglio 1992, in una riunione dei magistrati della Procura di Palermo, Borsellino chiede notizie sull’inchiesta e afferma che i Carabinieri sono delusi della sua gestione. Dalle successive dichiarazioni al Csm da parte dei presenti a quella riunione, emerge che nessuno gli dice che ne è già stata proposta l’archiviazione (Lo Forte era tra i presenti);
16 luglio 1992, si tiene a Roma una cena tra Borsellino, l’on. Carlo Vizzini, e i magistrati palermitani Lo Forte e Gioacchino Natoli. Nel corso dell’incontro, a riguardo c’è la testimonianza processuale di Vizzini, il dottor Borsellino parla diffusamente dell’indagine mafia e appalti individuandola come una delle possibili cause della morte di Falcone. Il dottor Lo Forte non informa il collega che due giorni prima, insieme al dottor Scarpinato, ne aveva chiesto l’archiviazione. Anche il giornalista Luca Rossi testimonierà in dibattimento di avere avuto, in quei giorni, un incontro con Borsellino che gli parlò dell’inchiesta mafia e appalti. Vale la pena altresì ricordare, come risulta dalle plurime testimonianze dei suoi colleghi, tra cui Vittorio Aliquò, Leonardo Guarnotta, e Alberto Di Pisa, che il dottor Borsellino ritenesse come l’interesse mostrato dall’amico Falcone per l’indagine fosse una delle possibili cause della morte di quest’ultimo;
19 luglio 1992, al primo mattino, il dottor Borsellino riceve la telefonata del procuratore Giammanco che gli conferisce la delega ad occuparsi delle indagini relative alla città di Palermo e alla sua provincia. Nel pomeriggio il magistrato viene ucciso da un’autobomba unitamente ai cinque agenti della sua scorta;
22 luglio 1992, tra giorni dopo la morte di Borsellino, il procuratore Giammanco inoltra al Gip del Tribunale di Palermo la richiesta di archiviazione per mafie e appalti;
14 agosto 1992, il Gip del Tribunale di Palermo, dottor Sergio La Commare, firma l’archiviazione dell’inchiesta. La decisione passa inosservata nella completa distrazione propria del periodo ferragostano.
Sulla base di questa sequenza di fatti e alla luce dei successivi sviluppi investigativi, si dovrebbe chiedere ai magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo perché, il 14 luglio 1992, nella loro riunione, non fu detto a Borsellino che c’era già una richiesta di archiviazione per mafia e appalti e per quali motivi si voleva chiudere l’indagine, e inoltre perché il procuratore Giammanco non sia stato mai formalmente sentito su queste vicende. In particolare, poi, al dottor Giammanco, vissuto sino al 2 dicembre 2018, viste le polemiche nel frattempo insorte e protratte nel tempo, si sarebbe dovuto chiedere di:
… spiegare il motivo per cui solo il 19 luglio (giorno dell’attentato di via D’Amelio), previa una telefonata di primo mattino, concesse a Borsellino la delega ad investigare anche sui fatti palermitani;
… commentare l’affermazione fatta da Falcone alla giornalista Liana Milella, quando, riferendosi alle determinazioni assunte dalla Procura della Repubblica di Palermo sull’inchiesta mafie e appalti le definì: “Una decisione riduttiva per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”;
… chiarire i termini dell’appunto rinvenuto nell’agenda elettronica di Falcone nella quale si evidenziavano le pressioni del dottor Giammanco sul capitano De Donno al fine di chiudere l’inchiesta mafia e appalti, giustificate dal procuratore come richieste pervenute dal mondo politico siciliano che altrimenti non avrebbe più ottenuto i fondi statali per gli appalti;
… smentire eventualmente le dichiarazioni di Siino che, nel corso della sua collaborazione, sempre ritenuta fondamentale dalla Procura della Repubblica di Palermo, affermò di avere avuto l’informativa mafia e appalti pochi giorni dopo il suo deposito e che il documento gli era pervenuto, attraverso l’on. Salvo Lima, dal dottor Giammanco.
Infine mi piacerebbe conoscere perché le dichiarazioni di alcuni magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo che il 29 luglio 1992 e nei giorni a seguire, sentiti dal Consiglio Superiore della Magistratura, avevano riferito della riunione della Dda di Palermo, tenutasi il 14 luglio 1992, e nella quale Borsellino aveva chiesto notizie sull’indagine mafia e appalti, non sono state oggetto di nessun accertamento.
Si tenga poi conto che queste dichiarazioni si sono conosciute solo a distanza di molti anni ed esclusivamente per l’iniziativa dell’avvocato Basilio Milio, mio difensore, che, dopo avere collezionato negli anni vari dinieghi, qualche mese orsono ha finalmente avuto accesso a un fascicolo processuale che ha trovato presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta e qui le ha rintracciate. Così le ha potute presentare nel corso del recente dibattimento davanti alla Corte di Assise di Appello di Palermo relativo alla presunta trattativa Stato/mafia, rendendole finalmente pubbliche. Per concludere questo argomento sottolineo che le perplessità nei confronti di alcuni indirizzi assunti dal dottor Giammanco nella gestione della Procura di Palermo, non costituivano solo una convinzione mia e di qualche altro ufficiale del Ros, ma erano radicate anche in una parte dei magistrati appartenenti al suo ufficio, che diedero anche vita a significative e pubbliche azioni di contestazione, senza che però in prospettiva, anche dopo l’arrivo del nuovo procuratore capo, il dottor Giancarlo Caselli, qualcuno ritenesse di svolgere accertamenti su quanto in quell’estate del 1992 era successo.
Dopo pochi mesi, uno dei cinque arrestati nell’inchiesta mafia e appalti, il geometra Giuseppe Li Pera, dal carcere e tramite i suoi avvocati, manifestò la volontà di collaborare, ma visti respinti i suoi tentativi di essere ascoltato dalla Procura della Repubblica di Palermo, riferì i fatti da lui conosciuti al capitano De Donno e al sostituto procuratore Felice Lima della Procura della Repubblica di Catania. Quest’ultimo, al termine degli accertamenti conseguenti alle dichiarazioni del collaborante, inoltrò al Gip del Tribunale di Catania la richiesta di ventitré ordinanze di custodia cautelare in carcere per associazione per delinquere di tipo mafioso ed altro, ma venne fermato dal proprio procuratore capo, il dottor Gabriele Alicata, che si rifiutò di firmare il provvedimento e decise, anche qui, di frazionare l’inchiesta in tre distinti segmenti:
-a Catania, rimase la parte riguardante un ospedale cittadino che portò all’arresto di Carmelo Costanzo, il Cavaliere del lavoro che, insieme ai colleghi Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci e Mario Rendo, costituiva il gruppo dei cosiddetti “quattro cavalieri dell’apocalisse” e delle cui attività si era a suo tempo interessato anche il generale Dalla Chiesa. Oltre al Costanzo furono arrestati un ex presidente della Provincia e alcuni membri di una Usl locale;
-a Caltanissetta, venne avviata la parte che riguardava le accuse di Li Pera a quattro magistrati della Procura della Repubblica di Palermo, i sostituti procuratori Giuseppe Pignatone, Lo Forte, Ignazio De Francisci e il procuratore capo Giammanco. L’inchiesta si concluse con l’esclusione di ogni responsabilità a carico degli indagati. Anche l’addebito, rivolto al Giammanco, di avere ricevuto denaro per ammorbidire gli esiti di mafia e appalti fu archiviato;
-a Palermo, toccò specificatamente la parte relativa a “cosa nostra”, che portò alla successiva emissione di un’ordinanza di custodia cautelare intestata a Riina più ventiquattro, in pratica il gotha mafioso palermitano, escludendo quindi ogni responsabilità della componente politica.
In nessuno di questi tre filoni operativi fu richiesta la partecipazione dei militari del Ros che pure avevano svolto, in esclusiva, tutte le precedenti indagini. Il conflitto interno alla Procura di Catania si concluse con la richiesta da parte del dott. Lima del trasferimento al Tribunale Civile. Il comportamento del capitano De Donno, ritenuto scorretto dalla Procura della Repubblica di Palermo, fu segnalato alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione che definì la pratica senza riscontrare alcun comportamento irregolare da parte dell’ufficiale.
Sulla propaggine catanese di mafia e appalti, meglio su tutta la vicenda, mi sembra appropriato concludere citando le parole dette dal dottor Felice Lima, il 4 maggio 2021, davanti alla Commissione d’inchiesta dell’Assemblea Regionale Siciliana: «… Io avevo le stesse carte dei colleghi palermitani, ma mentre sul mio tavolo queste carte portarono i frutti contenuti in quelle duecentotrenta, non mi ricordo, pagine di richiesta, a Palermo non era praticamente successo niente, anzi c’era stata una dolorosa, dal mio punto di vista, richiesta di archiviazione».
Per completare la narrazione sulle indagini da me coordinate nel settore degli appalti pubblici, c’è da aggiungere che, vista l’impossibilità di proseguire questa tipologia di inchieste in Sicilia, sempre nel corso del 1992, spostai il reparto del capitano De Donno a Napoli, dove fu riproposta la stessa ipotesi investigativa, questa volta applicata alla camorra. Lo spunto ci proveniva dalla segnalazione di minacce e intimidazioni con danneggiamenti, di chiara origine camorristica, rivolte a tecnici e cantieri della Impregilo, società impegnata nella costruzione della linea ad alta velocità Roma-Napoli (Tav). Da una serie di riscontri ottenuti, si constatò che, anche qui, l’interesse verso gli appalti pubblici da parte di appartenenti alla camorra era prioritario.
Concordammo con due magistrati illuminati, il procuratore della Repubblica di Napoli, Agostino Cordova e il responsabile di quella Direzione Distrettuale Antimafia, Paolo Mancuso, una linea di lavoro che prevedeva l’inserimento fittizio di un nostro uomo nel contesto operativo dei lavori della Tav, con la funzione di eventuale catalizzatore degli interessi illeciti, presentandolo come rappresentante dell’Associazione Temporanea d’Imprese (Ati) aggiudicataria del complesso dei lavori.
In breve, il nostro uomo, il sedicente ingegnere Varricchio, in realtà il tenente colonnello Vincenzo Paticchio del Ros, fu contattato da elementi del clan camorristico degli Zagaria, egemone nella zona di Casal di Principe, e si dichiarò disposto ad accettare un confronto che consentisse un “sereno” svolgimento delle attività. La richiesta dei criminali prevedeva la dazione del tre per cento dell’importo dei lavori. Vi erano inoltre altre percentuali da prevedere per la componente politica e per il mondo imprenditoriale. Varricchio accettò, ma pretese che tutte le richieste fossero in qualche modo formalizzate. Alcune di queste vennero ufficializzate nel corso di riunioni, tenutesi presso l’hotel Vesuvio di Napoli e coordinate dal geometra Del Vecchio, che prese fedelmente nota dei nominativi delle imprese segnalate, delle loro richieste e da chi venivano sponsorizzate. Il geometra Del Vecchio era in effetti un abilissimo maresciallo del Ros.
Tutte le operazioni furono registrate in audio e video e l’indagine si concluse con il rinvio a giudizio di camorristi, imprenditori e politici, tra cui anche il vice presidente della Regione Campania. Nel processo vennero condannati gli imprenditori e i camorristi, mentre i politici risultarono assolti in quanto “vittime di un’attività di provocazione”. Ancora mi domando che differenza effettiva ci fosse tra politici, camorristi e imprenditori, visto che analogo era stato il loro comportamento. Lo svolgimento dell’indagine condotta d’intesa con la Procura della Repubblica di Napoli dimostrò comunque che un’inchiesta nel settore degli appalti, anche con la normativa degli anni Novanta, poteva essere portata avanti se c’era coordinamento e unità d’intenti tra magistrati requirenti e investigatori.
All’Università Federico II di Napoli, nella facoltà di Economia e Commercio, si tennero per anni lezioni su quella nostra indagine.
Nel lungo tempo trascorso da quell’anno 1992, ho avuto più volte la possibilità di parlare con gli ufficiali che svilupparono con me quelle indagini sugli appalti. Il confronto ci ha portati a una serie di conclusioni:
– Il business nazionale della criminalità organizzata mafiosa era costituito dal condizionamento degli appalti che si affiancava, a livello internazionale, con quello costituito dal traffico delle sostanze stupefacenti;
– Il condizionamento degli appalti pubblici non costituiva solo l’obiettivo principale dei gruppi mafiosi, ma era fonte di guadagno illecito anche per molti imprenditori e politici, da considerare quindi non vittime ma partecipi dell’attività criminale;
– Stroncare l’inchiesta mafia e appalti, sorta ancora prima di “mani pulite”, evitava di collegare i due procedimenti giudiziari che in effetti sono stati condotti in maniera separata. Solo anni dopo, Di Pietro ha riferito dell’intenzione di Borsellino di unificare gli sforzi per gestire le rispettive inchieste, ravvisandovi una strategia unica. Lo stesso dottor Di Pietro ha ricordato di avere ricevuto dal capitano De Donno la sollecitazione ad interessarsi dell’inchiesta siciliana a fronte dell’inerzia di quella magistratura;
– L’inchiesta sviluppata dal Ros a partire dal 1990, coordinata e sostenuta da Falcone, si è integrata senza soluzione di continuità con quella di Catania diretta dal dottor Felice Lima, e seppure stroncata con la stessa tecnica usata a Palermo, ha consentito di evidenziare anche nella parte orientale dell’isola la presenza al tavolo degli appalti pubblici degli stessi attori: mafiosi, imprenditori e politici;
– Le inchieste sugli appalti, demolite in Sicilia, hanno invece avuto più ampi sviluppi in altre zone del paese;
– Alcuni esponenti della magistratura siciliana hanno consentito, con le loro decisioni, che le inchieste sul condizionamento degli appalti pubblici abortissero nella loro fase iniziale. Prima che tutti i protagonisti di queste vicende siano scomparsi, saremmo ancora in tempo per analizzare e valutare le ragioni delle loro decisioni;
– Io e De Donno siamo vivi perché la morte di Borsellino ha praticamente reso inutile la nostra soppressione. Eliminato il magistrato, è stato facile neutralizzare tecnicamente l’indagine che stavamo sviluppando, senza provocare altri omicidi che avrebbero potuto indirizzare in maniera più precisa le indagini sui fatti di sangue di quell’anno: omicidio di Salvo Lima, strage di Capaci, strage di via D’Amelio e omicidio di Ignazio Salvo. Tutto ciò premesso, appare assolutamente necessario che su quanto esposto vi sia un chiarimento, insistentemente richiesto anche da altre parti coinvolte. Il lungo tempo trascorso potrà contribuire a più distaccate e serene valutazioni che, però, appaiono tuttora necessarie, perché troppe morti le hanno segnate indelebilmente.
A conclusione di queste brevi note voglio esprimere una considerazione di carattere personale. Il Ros, costituito il 3 dicembre 1990, è un reparto investigativo a competenza nazionale che si interessa dei fenomeni di grande criminalità. Negli anni in cui era da me diretto, come peraltro avviene tuttora, conduceva indagini rapportandosi con le Procure della Repubblica più importanti del paese, tutte coordinate da magistrati di grande qualificazione professionale. Ebbene, nelle numerose attività sviluppate, solo in Sicilia, si sono verificati fatti che hanno dato origine a polemiche e inchieste di rilevanza penale, protrattesi addirittura per oltre un ventennio. Ora se è nella forza delle cose che per attività così delicate si possano verificare singoli episodi di contrasto frutto di incomprensioni e anche di errori umani tra i responsabili delle operazioni, l’ampiezza temporale delle tre inchieste, svolte in successione nei confronti miei e di alcuni ufficiali da me dipendenti, appare oltremodo indicativa, e tale da presentarsi non come il riflesso di convincimenti supportati da documenti e riscontri maturati nel tempo, ma piuttosto come l’attuazione, da parte di alcuni magistrati, di un predeterminato disegno di politica giudiziaria.
I tre procedimenti, sempre derivati dallo stesso contesto investigativo, per cui più di un giurista di fama ha parlato di “bis in idem”, volendo così indicare la riproposizione, esclusa dal nostro codice, degli stessi fatti in procedimenti diversi, sono sfociati in processi che si sono sin qui conclusi con l’identico risultato: assoluzione perché il fatto non costituisce reato. All’esito di questi ripetuti e conformi esiti processuali o siamo di fronte a un caso di clamorosa insufficienza professionale da parte di chi li ha aperti e sviluppati, ovvero le inchieste sono state condotte interpretando illogicamente o sovradimensionando gli esiti investigativi acquisiti che, infatti, non sono stati condivisi dalla magistratura giudicante. Ritengo che non si possa assolutamente parlare di mancanza di professionalità, ma invece la spiegazione vada ricercata in un approccio dei magistrati requirenti basato sulla volontà di intervenire processualmente in un campo, quello politico, che non compete al loro ordine, ma è esclusivo ambito del potere legislativo ed esecutivo.
Il magistrato, nel nostro ordinamento, deve valutare e giudicare i fatti accertati, così come afferma specificatamente l’art. 1 del nostro Codice Penale. A lui non compete in alcun modo tentare ricostruzioni più o meno avventurose in base a proprie convinzioni ideologiche che, in definitiva, portano solo a sovvertire l’equilibrata ripartizione dei poteri su cui si regge ogni democrazia compiuta.
(da “Il Riformista” 26-27.28.29 ottobrre 2021)