Angiolo Bandinelli
Una risata, un marameo. Così Angiolo Bandinelli saluterebbe i “ricordi” che si usa pubblicare, quando una persona cara se ne va “altrove”. Bandinelli fa parte di quell’Italia che ci ha regalato un po’ di aria fresca e pulita, insofferente com’è sempre stato verso qualsiasi tentazione illiberale; tra i protagonisti di una stagione ricca di fermenti politici e morali che solo in parte sono riusciti a cambiare l’Italia. Per tutta la vita è stato fedele a quel programma assimilato da Mario Pannunzio, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Marco Pannella, ed era diventata una sua seconda pelle. Non è mai stato un Goliarda dell’UGI, ma quell’aria, quell’atmosfera era la sua cifra: «Goliardia è cultura e intelligenza, è amore per la libertà e coscienza della propria responsabilità di fronte alla scuola di oggi e alla professione di domani; è culto dello spirito, che genera un particolare modo di intendere la vita alla luce di una assoluta libertà di critica, senza pregiudizio alcuno, di fronte ad uomini ed istituti; è infine culto delle antichissime tradizioni che portarono nel Mondo il nome delle nostre libere Università di scholari».
Un “salto” nel tempo. I radicali di Pannunzio, Rossi, Arrigo Benedetti, dopo infelici avventure elettorali, gettano la spugna: chi guarda i repubblicani, chi i socialisti…Un pugno di “giovani” non si arrende, decide di tener vivo il Partito Radicale: con Pannella e pochi altri (i fratelli Aloisio e Giuliano Rendi, Gianfranco Spadaccia, Sergio Stanzani, Massimo Teodori), c’è anche lui, Angiolo. A questa pattuglia dobbiamo uno dei più bei testi che siano stati scritti, verrà pure il giorno che una facoltà di Scienze Politiche si deciderà a studiarlo a fondo: lo Statuto del Partito Radicale, elaborato a metà degli anni ’60 a Faenza e poi a Bologna: congresso a data fissa e non quando lo decide il segretario; possibilità a chiunque (chiunque!) di potersi iscrivere unico requisito il pagamento della quota associativa; nessuna possibilità di espulsione, non esistono neppure i probiviri; possibilità (auspicata) di iscritti con doppia tessera; per ogni iscritto, non importa con quanti anni di iscrizione alle spalle, il diritto di partecipare al congresso, parlare, votare, presentare documenti. Un sogno? Un’utopia? Forse sì. Ma è con questo sogno e questa utopia che il Partito Radicale è diventato anno dopo anno il più antico partito sulla scena politica. E poi, sempre con Pannella, l’intuizione del Partito Radicale Transnazionale Transpartito Nonviolento.
Angiolo è stato anche deputato e consigliere comunale a Roma. Ha sempre onorato le istituzioni in modo impeccabile, convinto, da autentico liberale e libertario, di trovarsi a far parte del “tempio della libertà e della democrazia”, anche se con amarezza a volte aggiungeva: che dovrebbe essere il “tempio” e invece non lo è.
Toscano di Chianciano, scrittore, traduttore, autore di poesie delicate e di traduzioni dall’inglese e dal francese (Stevenson, Eliot, Baudelaire), una grande passione per Victor Hugo, di cui raccoglieva le prime edizioni originali… Con Pannella ha condiviso un “vissuto” che gli consentiva di “capirlo” e interpretarlo anche solo con un’occhiata, un’inflessione di voce, un silenzio; e senza, per questo essere mai perdere un’oncia della sua autonomia di pensiero. Anzi: il consiglio della sua critica, a Marco erano preziose; quante volte, nelle riunioni di partito, è capitato di assistere a furibondi “scazzi” che facevano presagire storiche e irreparabili rotture… Poi l’abbiamo capito: era “semplicemente” passione che coltivavano entrambi e che li ha uniti sempre e fino alla fine. Poche persone sono state leali con Pannella come Angiolo: che tanto ha dato, e certamente non ha ricevuto, in termini di pubblico riconoscimento, quanto avrebbe meritato (l’affetto, la considerazione, la ri/conoscenza no: quelle non sono mai venute meno).
È stato un protagonista di anni esaltanti, quegli anni Settanta che non sono stati solo gli anni di piombo e del terrorismo, ma anche, soprattutto, una grande stagione di civiltà e progresso: la legge per il divorzio, lo statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria, le leggi sull’aborto, obiezione di coscienza, voto ai diciottenni, nuovo diritto di famiglia, abolizione del regime manicomiale…Ha disseminato le sue idee, le sue opinioni, le intuizioni e “visioni” in una quantità di giornali e pubblicazioni: “Agenzia Radicale”, “Notizie Radicali”, “La Prova Radicale”; in mille riviste e giornali; e i libri: “La perla”; “Sette donne”; “Racconti evangelici”, “Giardini crudeli”, “L’Infingardo”, “Il radicale impunito”…
Sempre sorridente di quel sorriso lieto e sornione di chi ne ha viste tante e tante superate, nei momenti che contano, quelli che ti restano e segnano, non mancava mai; sapeva trovare la parola, il tono giusti per rincuorarti e darti nuova energia quand’eri stanco e avvilito. Nel Pantheon delle persone che hanno onorato questo paese e a cui dobbiamo qualcosa, uno dei posti d’onore è per lui.
Letizia Battaglia
Bellissime le sue fotografie, “classiche” e “irregolari” al tempo stesso. Come lei: spiazzano. Mai banali, quelle immagini: percorse da vibrante tensione, una sapienza non ostentata; dissimulata anzi, cifra di una rara grandezza. Con quegli scatti racconta tragedie e dolori, aiuta a non smarrire memoria. Sapeva cogliere anche sorprendenti fremiti di vita pulsante, in luoghi, situazioni che mai avresti detto, immaginato…non aveva davvero capito nulla (e poco capiva in genere) quel direttore che vista l’intervista, valutava certe dichiarazioni per lui incomprensibili, con occhio distratto, per poi liquidare come “incomprensibili” le risposte, “non è questo che il lettore vuole”. Butta tutto nel cestino. Raccontare mortificato l’esito della sfortunata impresa e lei risponde nel modo migliore: una risata; neppure di scherno, che un cretino non merita attenzione. E quel direttore era (è) cretino. Ha fatto carriera.
Silvia Tortora
Ancora una volta, non si è smentita: discreta e rigorosa, in vita; e anche negli utlimi suoi giorni. Anche Silvia come la sorella Gaia e il padre Enzo, ha vissuto e patito quella “bomba” che il 17 giugno del 1983 magistrati, falsi collaboratori di giustizia e giornalisti hanno fatto scoppiare “dentro”. Quanto devono aver pesato, esser costate, quelle infondate, false accuse: spaccio, detenzione, uso di sostanze stupefacenti, affiliazione alla camorra, perfino l’essersi appropriato di fondi da destinare ai terremotati: quel lungo calvario che ha portato Enzo a prematura morte. Uno dei momenti più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni; ancora oggi si fatica a crederci.
Enzo era una persona perbene; come è potuto accadere che lo si sia voluto impigliare in quel mostruoso errore giudiziario? Se lo sarà chiesto mille volte. Come ha potuto il pubblico ministero Diego Marmo definirlo “cinico mercante di morte”? Come ha potuto affermare: “Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza e più trovavamo quelle della sua colpevolezza?”. E l’altro magistrato, quel Lucio Di Pietro, dire che con gli elementi che avevano in mano, non potevano che arrestarlo? Niente, avevano in mano. Come hanno potuto credere a Giovanni Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Raffaele Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Come hanno potuto dare patente di credibilità a Pasquale Barra ’o animale, un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia l’intestino? E non solo Tortora. Il famoso “venerdì nero della camorra”, 850 mandati di cattura, si traduce, nella realtà, in decine di arrestati colpevoli di omonimia, di errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104…
C’è una “telegrafica”, terrificante, intervista che rilasciata al “Tg2”, che l’allora direttore Clemente Mimun volle trasmettere in più edizioni. Un documento che ancora oggi mette i brividi: quando suo padre fu arrestato, oltre alle dichiarazioni di Panico e Barra cosa c’era? “Nulla”. Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? “No, mai”. Intercettazioni telefoniche? “Nessuna”. Ispezioni patrimoniali, bancarie? “Nessuna”. Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? “Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. È risultato che erano di altri”. Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? “Nessuna”. Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. Su che prove? “Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato”. Qualcuno le ha mai chiesto scusa per quello che è accaduto? “No”.
Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Enzo è stato chiamato a rispondere delle sue calunnie. I magistrati dell’inchiesta hanno tutti fatto carriera. Enzo da quella vicenda non si è mai completamente ripreso. Stroncato da un tumore ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla sua tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”.
Ha scritto Gaia: “Eccoci qua sorellona, bisogna per salutarti e ringraziare la valanga di affetto che ci accompagna, dire qualcosa affinché ci sia come sempre abbiamo fatto, chiarezza e trasparenza. Ho protetto in tutti i modi da un anno e due mesi la privacy di Silvia e quella di mia mamma perché noi così siamo: riservate. Silvia ha avuto un evento cerebrale un anno e due mesi fa. È stata poi per tanti mesi ricoverata presso l’ospedale di riabilitazione Santa Lucia. Approfitto ancora una volta per ringraziare i medici i terapisti gli infermieri di un reparto che ho frequentato come una casa per un anno. Lì ho conosciuto storie, persone, sofferenza e dignità. Non dimenticherò mai la forza che ci siamo fatti a vicenda. Questa è l’ unica verità. Sono stata con te anche domenica pomeriggio fino all’ ora di cena. Ti sei addormentata e io penso che tu abbia deciso di lasciarci liberi e di liberare te stessa da una condizione che non avresti voluto vivere. Sono tornata a casa con una strana serenità perché ho capito solo dopo, che prendendomi cura di te domenica pomeriggio mi hai fatto ancora di più comprendere cosa volesse dire essere in quella situazione. Ce lo eravamo dette in tempi non sospetti. Non so come ringraziare tutti voi per i messaggi, piano piano cercherò di rispondere a tutti. Sono contenta di averti vissuto questo anno forse come non mai sorellona”.